vrijdag 25 juli 2014

L’abbondanza delle forchette

Tra le forchette ci sono delle regine che vengono di un’altra epoca. Hanno messo il loro vestito di ferro più elegante con due strisce in ogni lato. Quando prendi una così nella mano per attaccare il secondo, un filetto di maiale che ha passato la sua vita cercando i tuberi nel fango, il tuo strumento per mangiare ti guarda con disapprovazione e devi un attimo sorpassare questo momento di disagio prima di imboccare il tuo pezzetto di carne diabolica. In quella situazione non hai mai più desiderato la versione più servizievole, quella in plastica, che si romperebbe volentieri il corpo per soddisfare il tuo bisogno urgente di cibo, come se fosse qualche kamikaze giapponese.
L’ora del mio appuntamento con il signore D., in una trattoria modesta della periferia di Roma, la mia forchetta era di una drittura molto razionale, che si accordava con la solita tovaglia a quadri rossi. Il signore D. prendeva il tempo per spiegare meticolosamente il suo tovagliolo sulle ginocchia e si metteva gli spaghetti sulla forchetta in tre giri uguali della mano. Mentre masticava con calma la sua pasta mi guardava senza distrarsi. ‘Hai fatto il necessario?’, mi chiedeva con una voce bassa ma decisa, come se fosse un ordine invece di una domanda.  Affermavo con un cenno debole della testa. ‘Le ore previste sono state rispettate?’ Accennavo ancora. ‘ Non ci sono stati degli imprevisti?’ Gli dicevo di no. L’occhio destro mostrava una rassicurazione quasi impercettibili, seguita da una breva scossa prima che lui cadesse per terra. Uno spaghetto le usciva dalla bocca mentre lui guardava il soffitto con una ansia crescente fino a che l’ultimo scosso lo paralizzasse per sempre. Il cuoco usciva dalla cucina e i pochi clienti si alzavano e ci abbracciavamo un attimo. Il cuoco si rallegrava di aver fatto il lavoro con la metà della dose abituale. I clienti gli dicevano di essere prudente con quegli esperimenti perché abbiamo da fare con dell’erbaccia vera.
La forchette del Signore D. era rimasta sdraiata per terra accanto alla sua mano immobile. Le quattro rebbi, che a volte si chiamano denti, puntavano al pavimento, come se lei fosse caduta imitando il suo maestro morto. Questa cosa sempre mi stupisce, che uno strumento che serve per mangiare, abbia anche dei denti. Così pensando, camminavo a casa mia con la forchetta nella mano. Appena rientrato, collocavo questa forchetta nel mio muro, in un bello spazio vuoto nel mezzo delle sue mille sorelle.




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