Tra le forchette ci sono delle regine che vengono di
un’altra epoca. Hanno messo il loro vestito di ferro più elegante con due
strisce in ogni lato. Quando prendi una così nella mano per attaccare il
secondo, un filetto di maiale che ha passato la sua vita cercando i tuberi nel
fango, il tuo strumento per mangiare ti guarda con disapprovazione e devi un
attimo sorpassare questo momento di disagio prima di imboccare il tuo pezzetto
di carne diabolica. In quella situazione non hai mai più desiderato la versione
più servizievole, quella in plastica, che si romperebbe volentieri il corpo per
soddisfare il tuo bisogno urgente di cibo, come se fosse qualche kamikaze
giapponese.
L’ora del mio appuntamento con il signore D., in una
trattoria modesta della periferia di Roma, la mia forchetta era di una drittura
molto razionale, che si accordava con la solita tovaglia a quadri rossi. Il
signore D. prendeva il tempo per spiegare meticolosamente il suo tovagliolo
sulle ginocchia e si metteva gli spaghetti sulla forchetta in tre giri uguali
della mano. Mentre masticava con calma la sua pasta mi guardava senza
distrarsi. ‘Hai fatto il necessario?’, mi chiedeva con una voce bassa ma
decisa, come se fosse un ordine invece di una domanda. Affermavo con un cenno debole della testa.
‘Le ore previste sono state rispettate?’ Accennavo ancora. ‘ Non ci sono stati
degli imprevisti?’ Gli dicevo di no. L’occhio destro mostrava una rassicurazione
quasi impercettibili, seguita da una breva scossa prima che lui cadesse per
terra. Uno spaghetto le usciva dalla bocca mentre lui guardava il soffitto con
una ansia crescente fino a che l’ultimo scosso lo paralizzasse per sempre. Il
cuoco usciva dalla cucina e i pochi clienti si alzavano e ci abbracciavamo un
attimo. Il cuoco si rallegrava di aver fatto il lavoro con la metà della dose
abituale. I clienti gli dicevano di essere prudente con quegli esperimenti
perché abbiamo da fare con dell’erbaccia vera.
La forchette del Signore D. era rimasta sdraiata per terra
accanto alla sua mano immobile. Le quattro rebbi, che a volte si chiamano
denti, puntavano al pavimento, come se lei fosse caduta imitando il suo maestro
morto. Questa cosa sempre mi stupisce, che uno strumento che serve per
mangiare, abbia anche dei denti. Così pensando, camminavo a casa mia con la
forchetta nella mano. Appena rientrato, collocavo questa forchetta nel mio
muro, in un bello spazio vuoto nel mezzo delle sue mille sorelle.
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